…controcorrente…
È difficile stavolta andare controcorrente…quando è
Prima papa Benedetto,il teologo Ratzinger,un fine
intellettuale,molto preciso nella dottrina del Vangelo,ma con qualche tendenza
“conservatrice”,con qualche nostalgia per il latino,per
E poi viene il primo papa Francesco, tutto un programma nel nome. Dopo gli scandali economici, dopo le lotte di potere in Vaticano, si prospetta un po’ di pulizia e sobrietà.
A Buenos Aires il vescovo Bergoglio viveva in un semplice appartamento, sovente si faceva da mangiare da solo, prendeva l’autobus come tanti suoi concittadini.
Francesco nel primo discorso non usa mai il termine papa, ma solo vescovo di Roma, chiamato a presiedere nella carità assieme agli altri vescovi del mondo; prima di dare la benedizione, chiede al suo popolo romano di pregare e invocare la benedizione di Dio sul loro pastore.
È proprio
Ci saranno certamente ancora tanti problemi e difficoltà
sulla via della Croce, ma per quanti di noi erano timorosi sul futuro della
fede, sulla direzione da seguire per tutta
d. silvano
Controcorrente … Estate 2013…
Coincidenze …!...?...
Da una lettera di Joseph Ratzinger del 1969…
“dalla crisi di oggi nascerà domani una Chiesa che avrà perso molto. Sarà una Chiesa piccola e dovrà ricominciare tutto da capo. Non potrà più abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Perderà dei fedeli , e con essi anche tanti privilegi che aveva acquisito nella società. (…..)
Sarà una Chiesa ripartita in piccoli gruppi, movimenti e “minoritaria” che rimetterà la fede al centro della sua esperienza. (….) Diventerà una Chiesa povera, una Chiesa di piccoli …. Allora la gente vedrà in questo piccolo gregge qualcosa di … totalmente nuovo : lo scopriranno come una esperienza per loro stessi, come la risposta che avevano ricercato da sempre nel segreto del loro cuore …”
Allora Ratzinger era un giovane teologo in carriera, esperto al Concilio Vaticano II e Bergoglio veniva ordinato Sacerdote …………… lo Spirito soffiava già nella stessa direzione …
Le domande di un non credente
al papa gesuita chiamato Francesco
Il pontefice argentino è lo scandalo benefico della
Chiesa di Roma. Ma cosa risponderebbe agli interrogativi di un illuminista?
di EUGENIO SCALFARI
PAPA Francesco è stato eletto al soglio petrino da
pochissimi mesi ma continua a dare scandalo ogni giorno. Per come veste, per
dove abita, per quello che dice, per quello che decide. Scandalo, ma benefico,
tonificante, innovativo.
Con i giornalisti parla poco, anzi non parla affatto, il circo mediatico non fa
per lui, non è nei suoi gusti, ma il suo dialogo con la gente è continuo,
collettivo e individuale, ascolta, domanda, risponde, arriva nei luoghi più
disparati ed ha sempre un testo da leggere tra le mani ma subito lo butta via.
Improvvisa senza sforzo alcuno a cielo aperto o in una chiesa, in una capanna
di pescatori o sulla spiaggia di Copacabana, nel salone delle udienze o dalla
“papamobile” che fende dolcemente la folla dei fedeli.
È buono come Papa Giovanni, affascina la gente come Wojtyla, è cresciuto tra i
gesuiti, ha scelto di chiamarsi Francesco perché vuole
Di politica non si occupa, non l’ha mai fatto né in Argentina da vescovo né dal
Vaticano da papa. Criticò Videla sistematicamente, ma non per l’orribile
dittatura da lui instaurata ma perché non provvedeva ad aiutare i poveri, i
deboli, i bisognosi. Alla fine il governo, per liberarsi di quella voce
fastidiosa, mise a sua disposizione una struttura assistenziale fino a quel
momento inerte e lui abbandonò la
sua diocesi ad un vicario e cominciò a battere tutto il paese come un
missionario, ma non per convertire bensì per aiutare, educare, infondere
speranza e carità.
Due mesi fa ha pubblicato un’enciclica sulla fede, un testo già scritto dal suo
predecessore con il quale convive senza alcun imbarazzo a poche centinaia di
metri di distanza. Ha ritoccato in pochi punti quel testo e l’ha firmato e reso
pubblico.
L’enciclica è alquanto innovativa rispetto ad altre sullo stesso tema emesse
dai suoi predecessori. La novità sta nel fatto che non si occupa del rapporto
tra fede e ragione. Non esclude affatto che quel rapporto ci sia, ma a lui (e a
Benedetto XVI) interessa la grazia che promana dal Signore e scende sui fedeli.
La grazia coincide con la fede e la fede con la carità, l’amore per il prossimo,
che è il solo modo – attenzione: il solo modo – di amare il Signore. Si sente
il profumo intellettuale di Agostino. Più di Agostino che di Paolo. Ma qui
andiamo già nel difficile. Si dovrebbe pensare che siano tre i Santi di
riferimento per l’attuale Vescovo di Roma (che insiste molto su questa
qualifica che accompagna e addirittura precede il titolo pontificale):
Agostino, Ignazio, Francesco.
Ma è quest’ultimo che dà al Papa che ne ha preso il nome il connotato più
evidente e da lui sottolineato in ogni occasione. Vuole una Chiesa povera che
predichi il valore della povertà; una Chiesa militante e missionaria, una
Chiesa pastorale, una Chiesa costruita a somiglianza di un Dio misericordioso,
che non giudica ma perdona, che cerchi la pecora smarrita, che accolga il
figliol prodigo.
Certo,
Questo, finora, è stato il volto della Chiesa. La pastoralità? Certo, un bene
prezioso.
Ma attenzione: per duemila anni
I Sinodi sono stati ovviamente molto più numerosi, ma tutti indetti e guidati
dalla Curia e dal Papa.
Il cardinale Martini (vedi caso anch’egli gesuita) voleva accanto al magistero
del Papa la struttura orizzontale dei Concili e dei Sinodi dei vescovi, delle
Conferenze episcopali e della pastoralità. Non fu amato a Roma, come Bergoglio
nel conclave che terminò con l’elezione di Ratzinger.
Bergoglio ama anche lui la struttura orizzontale. La sua missione contiene
insomma due scandalose novità:
* * *
Vorrei però a questo punto porgli qualche domanda. Non credo risponderà, ma qui
ed oggi non sono un giornalista, sono un non credente che è da molti anni
interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di
Maria e di Giuseppe, ebreo della stirpe di David. Ho una cultura illuminista e
non cerco Dio. Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della
mente degli uomini.
Ebbene, è in questa veste che mi permetto di porre a Papa Francesco qualche
domanda e di aggiungere qualche mia riflessione.
Prima domanda: se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che
per
Seconda domanda: il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa
che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una
serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per
Terza domanda: Papa Francesco ha detto durante il suo viaggio in Brasile che
anche la nostra specie perirà come tutte le cose che hanno un inizio e una
fine. Anch’io penso allo stesso modo, ma penso anche che con la scomparsa della
nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi,
quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno
sarà più in grado di pensarlo. Il Papa ha certamente una sua risposta a questo
tema e a me piacerebbe molto conoscerla.
Ed ora una riflessione. Credo che il Papa, che predica
Lunga vita a Papa Francesco.
è una buona analisi storica,dubito che sia scritta da un non credente. di primo acchito mi sono preoccupato perchè di solito eugenio scalfari prende grandi cantonate, quelli che lui porta avanti, poi falliscono miseramente, basta vedere i suoi campioni in politica, e quindi temevo per un francesco lodato da lui.
poi invece con le domande che vuol fare a francesco mette tutto a posto, da sedicente ateo non capisce che se Dio esiste ed è misericordioso ama tutti e chiama tutti alla risurrezione,alla vita eterna,credenti e non credenti,ed anche la chiesa insegna queste cose da molto tempo. tira fuori la vecchia storia del cristianesimo inventato da s.paolo, si dice ateo e poi vuole spiegare ai cristiani la loro fede, come se noi volessimo spiegare l'autentico budda o maometto ai buddisti e ai musulmani.
povero scalfari è vecchio di età e di cultura. la realtà è una sola, se Dio esiste, tutto e tutti ne facciamo parte...quando mi fanno domande difficili sulla fede,sovente rispondo,(dipende dall'età),tra trenta-cinquanta anni lo sapremo...ed anche noi due nei prossimi quarant'anni risolveremo l'enigma...
d. silvano
a questo punto inseriamo l’inusuale risposta di papa Francesco su “Repubblica”
PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a
grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che,
dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio
con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine
dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l'attenzione con cui ha voluto leggere
l'Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell'intenzione del mio amato
Predecessore, Benedetto XVI, che l'ha concepita e in larga misura redatta, e
dal quale, con gratitudine, l'ho ereditata, è diretta non solo a confermare
nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a
suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce
"un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla
predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz'altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche
per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così
importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di
Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso
e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del
Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che,
ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno
camminato nel solco tracciato dal Concilio.
La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali
dell'Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della
modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e
incidenza sulla vita dell'uomo sin dall'inizio sono state espresse proprio
attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della
superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra
La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al
dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto
che questo dialogo non è un accessorio secondario dell'esistenza del credente:
ne è invece un'espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in
proposito un'affermazione a mio avviso molto importante dell'Enciclica: poiché
la verità testimoniata dalla fede è quella dell'amore - vi si sottolinea -
"risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella
convivenza che rispetta l'altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la
verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci
abbraccia e ci possiede. Lungi dall'irrigidirci, la sicurezza della fede ci
mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con
tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall'incontro con Gesù. Un incontro
personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo
alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato
reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho
trovato l'accesso all'intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che
come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità
con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza
Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta
nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell'ascoltare le sue domande e nel
cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare
a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte
nell'editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più
congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro
neppure nella modalità espositiva seguita dall'Enciclica, in cui Lei ravvisa la
mancanza di una sezione dedicata specificamente all'esperienza storica di Gesù
di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un'analisi del genere non è secondaria.
Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi
dell'Enciclica, di fermare l'attenzione sul significato di ciò che Gesù ha
detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi.
Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare
riferimento nell'Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del
ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella
pasqua di morte e risurrezione.
Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella
concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è
narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata
allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano
attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una
parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere
bene in italiano. La parola greca è "exousia",
che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall'essere" che si è.
Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che
emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza,
innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato
familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché
egli la spenda a favore degli uomini.
Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i
discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell'Antico Testamento, sono
di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di
Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l'identità di Gesù,
nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo,
un'autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a
servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di
mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l'incomprensione,
il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare
nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla
fine.
Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce,
nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di
Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l'uomo,
ogni uomo, si scopra e viva anch'egli come suo vero figlio. Questo, per la fede
cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il
trionfo su chi l'ha rifiutato, ma per attestare che l'amore di Dio è più forte
della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena
spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la
sua vita per aprire a tutti la via dell'amore. Ha perciò ragione, egregio Dott.
Scalfari, quando vede nell'incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede
cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne
(di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l'incarnazione, cioè il fatto
che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e
dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce,
vivendo ogni cosa nell'amore e nella fedeltà all'Abbà, testimonia l'incredibile
amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce.
Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore
di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la
fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell'Enciclica.
Sempre nell'editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre
come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa
fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi
che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in
Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto
che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno
dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la
fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra
Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere
figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la
comunicazione, non per l'esclusione.
Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione
tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio
quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza
da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo,
che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del
tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella
radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire
dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per
noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho
coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte
volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente
andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso
dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio
all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi
secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro,
non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi
poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti,
anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini,
del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui
e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell'articolo del 7 agosto. Mi pare
che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l'atteggiamento della
Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il
Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed
è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge
a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta
nell'obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede,
c'è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa,
infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E
su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero
secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità
assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un
peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità
"assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è
privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore
di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero
che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé:
dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non
significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt'altro. Ma significa
che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto
forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri
termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede
l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna
intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una
contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che
questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e
costruttivo che auspicavo all'inizio di questo mio dire.
Nell'ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra,
scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza
dell'uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto
consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio -
questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li
condividono! - non è un'idea, sia pure altissima, frutto del pensiero
dell'uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e
vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio
non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a
finire la vita dell'uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso,
questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l'uomo non
terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l'universo creato con
lui.
Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da
quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa
e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all'invito che vi ho scorto di fare un
tratto di strada insieme.
ha altro senso e fine se non quello di vivere e
testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall'Abbà "a portare ai poveri
il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la
vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del
Signore" (Lc 4, 18-19).
Con
fraterna vicinanza
Francesco
… e la risposta di Scalfari…su “Repubblica” …